Classe V A Odontotecnici
IIS Carlo Urbani di Roma
“Se è accaduto vuol dire che è possible”. Questa frase fu scritta da Primo Levi riguardo ai campi di concentramento tedeschi e mai avrei creduto che anche in Italia potesse assumere un significato tanto crudo e tagliente. Mentre Adriano P., ex infermiere del manicomio e autore del libro intitolato “Scene da un manicomio”, ci spiegava il funzionamento della struttura e le modalità di internamento, le nostre facce diventavano sempre più pallide ed espressioni come “non è possibile” o “non ci posso credere” uscivano in maniera incontrollata dalle nostre bocche. Entrando in questa struttura avevo notato una copia della celebre scultura chiamata “la pietà” la quale mi aveva affascinato in modo particolare. Considero quell’opera d’arte un’icona più che adatta per un posto dove la carità e l’altruismo dovrebbero essere un elemento scontato e onnipresente nella quotidianità ma, al momento dell’uscita, riguardando quella scultura, ho provato indignazione per l’ipocrisia e l’incoerenza dell’aver posto in quel luogo quel gesto affettuoso scolpito nel marmo. Sin dall’ingresso, infatti, le parole carità, tolleranza, amore, rispetto della dignità e dei diritti umani svanivano come nebbia dietro i cancelli di gelido ferro di quel “campo di concentramento” italiano. Prima di giudicarmi per aver fatto questa pesante affermazione e questo ancor più lancinante paragone, aspettate di sapere quello che accadeva lì. Innanzitutto è doverosa una puntualizzazione. Nel “manicomio” non vi erano solo persone con disturbi psichici. Su un registro, infatti, figuravano come cause di internamento l’eccessiva vivacità, l’adulterio, la timidezza, l’abuso di alcolici e addirittura le ideologie politiche. Non era raro che molta gente venisse incastrata solo perché sgradita alla società considerata normale nella vita di tutti i giorni. Il manicomio era anche pieno di bambini orfani che per comodità venivano gettati in quel “buco nero istituzionale” fino alla morte. Le uniche possibilità di uscita erano la guarigione e l’affidamento sotto la responsabilità di un parente. Per gli orfani la seconda opzione decadeva immediatamente mentre rimaneva ancora la possibilità della dimissione: un miraggio. Quei posti erano contenitori per esseri umani in cattività … non avevano il fine di curare ma solo di occultare un neo dell’umanità sgradevole alla vista. Come si può pensare di guarire persone e bambini tenendoli in isolamento per 5-9 anni di fila legati a un letto senza neanche la libertà di movimento sufficiente per mettersi seduti? Come si può pensare che un individuo guarisca rimanendo in stanze poco più grandi di una classe circondato da altri 60 ricoverati? Come si può pensare a un reinserimento nella società se nel manicomio non vi è nulla di sociale? Come si può fare un elettroshock a un bambino di 6 anni sapendo che con un procedimento simile si ammazzano i maiali al mattatoio? A tutti questi interrogativi solo una risposta è concessa … non è possibile. I pazienti provavano a fuggire, commettevano omicidi e spesso si toglievano la vita spaccandosi la testa sul termosifone sperando di giungere in un paradiso soave, visto che l’inferno lo avevano già vissuto qua. Dopo aver visto e sentito questo mi sono messo a parlare con la nostra guida che per quarant’anni ha lavorato come infermiere in quel luogo. L’aspetto che più mi ha colpito della nostra conversazione è stata la risposta che ha dato a una mia domanda che riporto qui di seguito: “Quando un paziente moriva in mezzo a questi padiglioni sovraffollati, qual’era la reazione dei ricoverati?” E’ facile immaginare scene di caos e panico dove ogni paziente va in crisi e si agita cercando di sfuggire alla morte che era lì presente a pochi passi da lui ma la risposta di Adriano P. mi ha fatto riflettere e cerco di riportarla fedelmente: “Nulla … la totale apatia. Tanto ormai era stato compiuto il processo di disumanizzazione, per cui un suicidio suscitava meno effetto di una cicca di sigaretta spenta male dalla quale si potevano ancora fare due o tre tiri”. Durante la visita ci siamo soffermati a parlare in una camera di isolamento dove le bende per assicurare il paziente al letto erano ancora sporche di sangue. Nonostante siano passati circa sette anni da quando quella cella è stata usata per l’ultima volta, si poteva ancora percepire nell’aria una sensazione di oppressione e ansia. Raramente una visita di istruzione è stata tanto istruttiva e sono sicuro che come me molti di noi penseranno ancora per molto tempo a quello spazio di atrocità con un nome del tutto fuori luogo: Santa Maria della “Pietà”.